[INTERVISTA] Football is coming home, di Luca Manes

Football
is coming home, appunti di viaggio nella patria di chi il calcio lo
ha inventato, è un libro che racconta le città che hanno fatto la
storia del calcio inglese. Molti sono gli aneddoti del passato e le
esperienze vissute in prima persona dall’autore. Nell’intervista non
mancano le riflessioni sullo stato attuale del calcio in Inghilterra.


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Football
is coming home
è un libro di viaggi nella patria del calcio e si
basa sulle esperienze vissute dall’autore Luca Manes,
giornalista pubblicista e scrittore.
Manes è
autore di altre cinque pubblicazioni tra cui: Manchester United.
La leggenda dei Busby Babes
con cui vinse una Targa d’Onore al
Premio Bancarella Sport
nel 2006, oltre a Made in England,
Millwall vs West Ham e ,con il suo collega Max Troiani,
Celtic Forever e London Calling.

Viaggia
spesso in Inghilterra per passione o lavoro e nel libro racconta le
sue esperienze in alcune città che ne hanno fatto la storia.
La
‘febbre’ per il calcio d’Oltremanica lo ha portato nelle principali
città del football, da Sud a Nord, e a descrivere non solo gli
aspetti sportivi, ma anche quelli sociali in luoghi che hanno vissuto
enormi cambiamenti e tensioni, a causa della chiusura di molti
insediamenti industriali che davano lavoro a molte famiglie.
Purtroppo
non è tutto oro quel che luccica e, quello che ci viene proposto dai
media come il modello perfetto, nasconde delle storie spiacevoli di
squali senza scrupoli che navigano nel mare del calcio inglese. E
nonostante rimanga un prodotto globale, richiestissimo in ogni luogo
del pianeta, molte squadre ‘storiche’ negli ultimi anni sono
retrocesse e affogate nei debiti a causa di alcune gestioni
discutibili.
L’autore
rimarca anche lo stato di salute attuale del calcio inglese: dai
prezzi esorbitanti dei biglietti, all’allontanamento del vero tifoso
per i ‘nuovi clienti’, la mancanza di calore e tifo sugli spalti, a
tratti malinconici, che fanno rimpiangere le atmosfere degli impianti
del passato. Il tutto raccontato con spirito critico.

Fratton Park, Portsmouth.
L’avventura
ha inizio a Portsmouth, la prima città visitata da Manes appena maggiorenne nel 1990, in un periodo terribile per il football
inglese: hooligans, la tragedia di Hillsborough e
l’esclusione dalle coppe europee a causa dei gravi fatti
dell’Heysel
.
Nel
corso degli anni ha visitato le città più importanti della storia
del calcio inglese, tra cui Londra, Ipswich,
Birmingham, Wolverhampton, Nottingham,
Liverpool, Manchester, Sheffield, Leeds e
Newcastle. Undici tappe, ed un ‘incontro speciale’,
nell’ultimo capitolo.
Il
titolo del libro interpreta bene lo spirito del calcio vissuto come
passione e divertimento, ed è tratto dal brano dei Baddiel &
Skinner & Lightning Seeds
del 1996, anno in cui si
disputarono i Campionati Europei in Inghilterra, in piena era
Britpop, un genere musicale di cui Manes è un grande
estimatore in modo particolare degli Oasis.
Sono
molti ed interessanti gli aneddoti raccolti nel corso degli anni
dall’autore: campioni che hanno lasciato un ricordo indelebile nella
memoria collettiva di ogni appassionato, senza dimenticare i grandi
manager, gli stadi leggendari e le squadre gloriose ed
ultracentenarie.
Tutto
questo potrete scoprirlo acquistando Football is coming home.
Dopo
averlo letto, ho approfittato della disponibilità e della competenza
di Luca Manes per porgli alcune domande riguardo alle sue esperienze
ed anche a proposito del calcio giocato.

E’
trascorso un quarto di secolo dalla tua prima esperienza in
Inghilterra. Quali ricordi hai della tua prima tappa a Portsmouth e
di quell’epoca del Football inglese?
Era
il 1990, ed era appena trascorso un anno dalla tragedia di
Hillsborough, mi riferisco al medioevo del calcio inglese che era
visto con ben altri occhi rispetto ad oggi.
In
realtà in poco tempo gli stadi sarebbero cambiati; ci sarebbe stato,
da parte degli inglesi, un successo nella lotta all’hooliganismo e
poi sarebbe nata la Premier League. Quindi sarebbe cambiato tutto.
Dal
mio punto di vista ci sono dei pro e contro: di positivo c’è che
allo stadio non si verificano più tanti incidenti come negli anni
’70 e ’80; però, la perdita del fascino del calcio di una volta con
impianti storici bellissimi, che avevano fatto la storia, o rifarli
completamente, questo fa’ un po’ male anche a gli appassionati e
puristi, come posso esserlo anche io.
E’
indubbia che la differenza sia enorme. All’epoca la maggior parte
delle persone, politici, addetti ai lavori e opinione pubblica vedeva
il calcio inglese come una sorta di male da estirpare. Non ci
scordiamo che nel 1990, quando andai a Portsmouth per la prima volta,
si disputavano i Mondiali in Italia e comunque la presenza dei tifosi
inglesi aveva causato dei problemi, e c’era sopratutto un livello di
militarizzazione altissima. Poi con la Nazionale le cose sono
continuate in un certo modo, però, sopratutto quando ci sono le
tifoserie dei club all’estero, le cose che praticavano tanti anni fa,
ora non accadono quasi mai. C’era una forte criminalizzazione, il
calcio era visto in Inghilterra come una cosa sporca, brutta e
cattiva.
La
cosa sorprendente è quello che è accaduto dopo, sopratutto
nell’arco di poco tempo, perché diverse persone hanno capito che con
il calcio si potevano fare molti soldi e tutta questa visione è
cambiata: da brutto sport o per dementi da working class, come
dissero alcuni politici inglesi all’epoca, il calcio è diventato un
fenomeno di massa che ha coinvolto molte fasce della middle class ed
è diventato sopratutto di moda. E questo ha portato dei vantaggi, ma
anche più svantaggi, nel senso che ci sono tanti appassionati ormai
finti.
C’è
un po’ il trionfo dell’occasionalità, in alcune circostanze. E’
anche vero che rimane una passione popolare e che continua a
coinvolgere milioni di persone. Però è quello che leggo su alcuni
blog o alcuni siti di tifosi del West Ham, per fare un esempio, sul
fatto di essere passati dal Boleyn Ground allo Stadio Olimpico ha
causato un contraccolpo negativo, perché se prima ci andava
essenzialmente lo zoccolo duro dei tifosi del West Ham, che quindi
avevano tutta la passione possibile, adesso c’è chi scrive che non
c’è più tanta atmosfera nel nuovo impianto; ci sono tanti
occasionali e un po’ per moda, e questo ha i suoi svantaggi.
Sicuramente la squadra guadagnerà più sterline dal nuovo stadio che
è più grande rispetto al precedente, però è anche vero che si
perdono le caratteristiche dell’impianto che il West Ham ha avuto per
100 anni. Il campo è troppo lontano dalle tribune, tanti tifosi
escono 10 minuti prima per non trovare traffico. Se la squadra vince
esultano, sì, ma fino ad un certo punto.
Insomma,
questi sono i contraccolpi negativi dell’aver resettato il modello
del calcio inglese, sopratutto in termini economici”.
Quale
aneddoto, legato alle tue esperienze, ricordi con più piacere?

Ce
ne sono tanti, forse come esperienza complessiva un tour che ho fatto
l’hanno scorso. Prima due giorni a Belfast, dove ho dormito nella
casa e camera di George Best. Poi un viaggio tra Glasgow e Newcastle
per vedere le partite di Rangers e Magpies. Quello è stato un
concentrato della mia passione per il calcio inglese. Una trasferta
del genere è difficile da ripetere. Una cosa per me abbastanza
esaltante, nonostante abbia visitato molti stadi e posti.
Una
trasferta recente che ricordo con più piacere e affetto, legata ad
un aneddoto particolare? La prima volta che sono andato nel vecchio
Wembley, nel 1996, alla Charity Shield tra Manchester United e
Newcastle. All’epoca non esistevano le macchine fotografiche
digitali, ma quelle con i vecchi e cari rullini.Stavo scattando delle
foto e camminando sui vecchi gradoni del vecchio impianto, che era
veramente in condizioni precarie, mi cadde la macchina fotografica.
Si aprì e il rullino, andò per i fatti suoi e le foto scattate si
persero. Sono stato fortunato che il giorno prima ero stato a
Knebworth, ad un concerto degli Oasis, e almeno quelle si sono
salvate, mentre quelle di Wembley no. Ci sono stato nel ’96, tra
l’altro in una partita di cartello perché si trattava della Charity
Shield, e non ho nemmeno una fotografia. Quello è il ricordo meno
piacevole.
Se
devo pensare ad un ricordo veramente piacevole e meno recente, è
stata la trasferta a Belfast a visitare i luoghi dov’è cresciuto
Best e a intervistare persone che lo avevano conosciuto o che
comunque avevano avuto esperienze legate a questo simbolo
dell’Irlanda del Nord. E poi mi sono tuffato nell’ambiente dei
Rangers Glasgow, molto particolare per la loro passione. Insomma,
fare un giro del genere in quattro giorni, è assolutamente da
ripetere”.
La
Pemier League e la English Foootball League sono considerate le
massime espressioni del football. Secondo te sono il ‘modello
perfetto’?
No,
assolutamente no. La Premier è un prodotto vincente se la
consideriamo dal punto di vista commerciale. E’ quasi perfetto perché gli introiti sono enormi, ha i contratti televisivi più ricchi al
mondo, mechandising, stadi, ma dal punto di vista di un appassionato
di calcio, sopratutto legato a quello più antico rispetto a quello
attuale, io non penso che la Premier sia un modello sostenibile,
perché ha troppo snaturato quello che era l’essenza del calcio
inglese.
Non
parlo solo delle questioni che riguardano le proprietà straniere, ma
ad esempio sui tanti giocatori stranieri che spesso si discostano da
quelli che sono i valori del calcio inglese di 30 o 40 anni fa’. E
sopratutto che i giocatori in Premier, di alcuni club, guadagnino
cifre che francamente sono spropositate, perché alla lunga
potrebbero, dal punto di vista economico, rivelarsi degli autogoal.
Mi spiego, se la Premier per qualsiasi motivo, anche magari a causa
della Brexit, dovesse incontrare delle difficoltà e perdere un po’
del suo appeal ed iniziare ad avere meno introiti dai diritti
televisivi, potrebbero correre il rischio che questa enorme bolla
possa anche esplodere. Ci sono anche osservatori che affermano che
tutto sommato questa cosa non sia così negativa. Avere meno
giocatori stranieri ed investire di più sui giovani inglesi potrebbe
comportare dei vantaggi per la Nazionale inglese che ,come sappiamo,
ogni due anni fa delle figuracce ai Mondiali ed Europei.
Personalmente
credo che il problema principale della Premier sia quello di avere
snaturato l’essenza del calcio inglese, che si ritrova in parte nella
Championship, ma sopratutto nelle partite di League One e League Two.
Una cosa che abbastanza spesso mi capita di fare è quella di
visitare anche i campi minori, e sia l’atmosfera che il gioco senza
troppi fronzoli, mi ricordano le partite che vedevo in televisione
negli anni ’80”.

Chi è
il personaggio, o la squadra, che hanno segnato la tua passione per
il calcio d’Oltremanica?
Il
Manchester United, da quando avevo 10 anni ed ho iniziato a seguire
il calcio inglese. Mi sono appassionato alla storia molto triste
della tragedia di Monaco del 1958, che ha segnato profondamente la
storia del club ed è molto simile a quanto accaduto al Grande Torino
nel 1949. Ed il fatto che alcuni giocatori come Bobby Charlton e il
grande allenatore di quello United, Matt Busby, si salvarono, fa si
che poi ci sia stato un proseguo. Le stesse persone nel 1968 hanno
poi vinto la Coppa dei Campioni con Best, e fu la prima squadra
inglese ad aggiudicarsela.
Mi
sono innamorato di quella squadra, avevo 10 anni e non era forte come
quella attuale e non vinceva da tempo immemore il campionato perché all’epoca era il Liverpool che dominava. Gli inglesi parlano di
tifosi ‘glory hunting’, quelli che tifano per una squadra solo perché vince i titoli. All’epoca lo United non era esattamente la squadra
che vinceva i titoli. Poi è diventata vincente con Sir Alex
Ferguson; però sono molto legato alla squadra di Bryan Robson, Mark
Hughes che dava il massimo, ma vinceva poco a parte la Coppa
d’Inghilterra. Il campionato sembrava un tabù.
Poi,
qualche anno fa’, mi è capitato di scrivere un libro sullo United
dove ho raccontato sopratutto la vicenda dei Busby Babes e della
grande squadra che nel ’58 è stata decimata a causa del terribile
incidente aereo. E’ grazie a quel libro ho conosciuto il figlio di
Matt Busby e suo nipote. Gli ho consegnato una copia del mio libro;
insomma questa cosa ha contribuito ancora di più a legarmi allo
United. Sono andato spesso all’Old Trafford, che per me rimane ‘il
teatro dei sogni’, il mio stadio inglese preferito insieme a quelli
più storici come il Craven Cottage o Hillsborough”.
Nel
2006, grazie a quel libro, hai vinto la Targa d’Onore al Premio
Bancarella Sport…
Sì,
è stato un libro scritto con il cuore. Una vicenda tristissima, come
quella del Torino dopo la tragedia di Superga. Le difficoltà sono
state davvero tante per la squadra, al di la degli anni ’70, non è
più riuscita a ripetere le grandi imprese degli anni ’40. Lo United
è stato più forte rispetto a quella squadra. Formata da ragazzi del
settore giovanile, è riuscita lentamente a costruire anche su quella
tragedia ed attualmente è uno dei club più famosi al mondo e con
più introiti. C’è questa differenza che mi ha sempre colpito molto.
E’ anche vero che sono state compiute delle scelte ,come quella di
affidare la panchina ad Alex Ferguson, che si sono rivelate decisive
e che hanno ricalcato il passato del dopoguerra. Come Ferguson è
stato per oltre vent’anni seduto su quella panchina, anche Busby era
rimasto per più di vent’anni e aveva vinto tanto, come la prima
Coppa dei Campioni, ed aveva ricostruito la squadra dopo la tragedia.
Sono tutti questi elementi di una storia così ricca, bella e anche
in parte triste che mi hanno fatto sempre appassionare alle vicende
dello United.
Quello
attuale con la proprietà Glazer mi crea qualche problemino. Io 120
milioni per Pogba non li avrei mai spesi, non tanto perché non penso
che sia un giocatore fortissimo, ma non vale quella cifra. Invece tra
Mourinho e la proprietà attuale, fanno delle cose che io non
condivido molto”.
Una
domanda che riguarda la Nazionale inglese. Dopo il clamoroso flop
agli ultimi Europei in Francia, volevo chiederti il motivo per cui i
Three Lions falliscono nelle grandi manifestazioni internazionali,
nonostante i molti grandi campioni che nel corso degli anni hanno
vestito quella maglia? Cinquant’anni d’astinenza dall’ultimo successo
non sono troppi?
Cinquant’anni
di dolore dicono gli inglesi. In effetti sono tantissimi e ci sono
varie motivazioni, penso che in alcuni frangenti come anni ’80 e ’90
mancavano giocatori forti. Se osserviamo l’elenco dei vari calciatori
che hanno vestito la maglia della Nazionale inglese è singolare che
abbiano disputato solo una semifinale ai Mondiali e agli Europei.
Attualmente
le motivazioni possono essere che i giocatori della Premier arrivano
più stanchi rispetto ad altri. E’ stato dimostrato anche
all’Europeo, dove il Portogallo con dei giocatori che avevano
disputato mezza stagione ed erano impegnati in campionati meno
competitivi, siano stati più freschi e riusciti poi a vincerlo. E
poi c’è l’annoso problema del ct: l’Inghilterra è sempre riuscita a
sbagliare questa scelta, anche in quelli stranieri, in parte Capello
ed Eriksson. Su Hodgson preferisco stendere un velo pietoso.
E’
una situazione abbastanza seria ed un ulteriore problema sono questi
giocatori così forti, o ritenuti tali, che sono in parte anche un
po’ sopravvalutati. Lo stesso David Beckham era un ottimo giocatore,
ma non era un fuoriclasse.
L’aspetto
psicologico è l’elemento più forte, ovvero c’è un enorme pressione
da parte dell’opinione pubblica e dei tifosi, e quindi arrivano nelle
competizioni internazionali non essendo in grado di reggere questa
pressione. Gente come Gerrard, Lampard, Terry e Rooney hanno commesso
errori nel corso degli anni perché non hanno saputo reggerla. Molte
volte l’Inghilterra è stata eliminata ai quarti di finale e ai calci
di rigore, ed è abbastanza significativo che tanti giocatori non
sappiano reggere questa pressione.
Euro
2016 poteva essere un punto di svolta, nessuno li dava come favoriti
assoluti, per cui avrebbero potuto iniziare un nuovo ciclo,
disputando magari una semifinale, provando a fare dei risultati di un
certo rilievo e invece è finita come sappiamo. Ancora peggio di
altre circostanze.
Andranno
ancora ai prossimi Mondiali con Allardyce, ma al massimo potranno
aspirare ai quarti di finale. Poi ci sono dei problemi tattici, come
quello di non riuscire a trovare un ruolo a Wayne Rooney, oppure il
non comunicargli di accomodarsi in panchina.
Spesso
nei gironi di qualificazione non è mai riuscita a vincere o a
segnare quel goal in più che gli avrebbe permesso un percorso più
facile. Penso ai Mondiali Sudafricani, quando il secondo posto poi
comportò la partita agli ottavi con la Germania.
Insomma,
ci sono un insieme di fattori, però essenzialmente le ragioni
principali sono per me: pressione psicologica, allenatori inadeguati
e alcuni giocatori sopravvalutati”.
Quale
sarà la tua prossima tappa? Stai lavorando ad un tuo prossimo
progetto?
Sto’
ragionando sulla prossima trasferta, probabilmente già a gennaio, e
cerco un accredito per la partita del 10 giugno tra
Scozia-Inghilterra, per me la madre di tutte le partite. Hampden Park
è forse l’unico grande stadio che mi manca, con una capienza di
oltre 40.000 posti.
Per
quel che riguarda altri libri, sto pensando a varie ipotesi”.
Ti
ringrazio per il tempo dedicato, vuoi lasciare un messaggio ai nostri
lettori?
Continuate
a seguire il calcio inglese e non concentratevi solo sulla Premier.
Seguite
anche i campionati minori, come faccio io, perché ci sono delle
storie bellissime che li valorizza appieno e se possono di farsi un
viaggio godendosi qualche partita della serie minori, per riscoprire
il calcio di una volta”.

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